L'alba si era riversata sull'attico di Coverciano, inondando di luce chiara gli spazi ampi e disegnati con rigore tecnologico. Le pareti sensorizzate, che durante la notte avevano mantenuto un tepore perfetto e diffuso un bagliore riposante, ora modulavano la luminosità per riflettere il sole che sorgeva pigro sui tetti di Firenze. Dalle immense finestre del soggiorno, la città appariva come un dipinto vivente: il profilo antico del Duomo si stagliava all'orizzonte, una silhouette familiare ma carica di una nuova e segreta gravità per Vittorio, circondato dal luccichio discreto delle nuove strutture e dal verde curato dei parchi urbani. L'aria nell'appartamento era fresca e pulita, leggermente profumata dalla vegetazione che cresceva sui balconi integrati nella facciata, e il silenzio era rotto solo dai lievi ronzii degli apparecchi domestici smart che si attivavano con il risveglio.
Nella cucina, un ambiente minimalista dove ogni superficie era un pannello di controllo, la macchina automatica preparava la colazione con precisione svizzera: caffè fumante, yogurt vegetale e frutta tagliata in forme perfette. Eloisa si muoveva tra gli spazi con la routine di anni di convivenza, i suoi movimenti fluidi ma con una leggera ombra di preoccupazione nei suoi occhi marroni. Giulio, come al solito, era già immerso nel suo visore, seduto al tavolo che proiettava interfacce olografiche nell'aria, un adolescente del 2050 la cui realtà immediata era filtrata dalla tecnologia, meno attento alle tensioni silenziose che permeavano l'aria. Vittorio, tuttavia, era una figura immobile in questo flusso mattutino; invece di unirsi a loro, si trovava nel suo studio adiacente, uno spazio intasato di schermi curvi e sensori, la sua mente già proiettata altrove, verso quel punto anomalo sotto la Cupola, il peso del suo segreto che lo allontanava dalla quiete domestica come un magnete invisibile.
Giulio sollevò per un istante il visore, i suoi occhi chiari un po' velati dalla luce proiettata dalle lenti trasparenti. Vide il padre, ritratto, lo sguardo fisso su uno schermo che mostrava grafici e dati incomprensibili per lui. Una nota di preoccupazione, insolita per la sua routine assorta, gli fece posare completamente il visore sul tavolo. Si alzò con un fruscio leggero dei tessuti tecnici dei suoi vestiti e si diresse con passo incerto verso lo studio. Si fermò sulla soglia, osservando l'ambiente immerso in un bagliore freddo e digitale.
"Papà?" chiamò piano Giulio, la sua voce un po' più bassa del solito, quasi timorosa di rompere la concentrazione del padre. Vittorio non si mosse subito, perso nel suo labirinto di numeri e paure. Solo dopo qualche istante si voltò, i suoi occhi verdi dietro gli occhiali che mettevano a fuoco la figura esile del figlio.
"Oh, Giulio," disse Vittorio, sorpreso. Il suo tono era un po' forzato, un tentativo malcelato di sembrare normale. "Tutto bene? Non stai facendo colazione?"
Giulio fece qualche passo nello studio, l'aria leggermente più fredda e rarefatta rispetto al calore accogliente del soggiorno. Incrociò le braccia, un gesto che tradiva la sua esitazione. "La faccio dopo," rispose, poi si fece più diretto, prendendo coraggio. "Mi chiedevo... perché sei qui? Non vieni mai nello studio appena sveglio." Fece una pausa, i suoi occhi chiari che cercavano quelli del padre. "E perché sei... così?"
Vittorio si irrigidì leggermente sulla sedia. Il suo istinto primario era la negazione, lo stesso che aveva usato con Eloisa la sera prima. "Così come?" chiese, cercando di minimizzare, la sua mano che andava a sfiorare una tastiera olografica come per riaffermare la sua concentrazione sul lavoro.
"Così... preoccupato," mormorò Giulio, la parola che gli usciva quasi con un sospiro. "Oggi sembri peggio del solito. Mamma l'ha detto ieri sera... che sei diverso. Ed è vero." Si avvicinò un po' di più, l'adolescente che tornava bambino per un istante nella sua sincera apprensione. "È da quando hai iniziato quella cosa... lì sotto... con i sensori. Non parli più, sei sempre pensieroso. Cosa succede, papà?"
Vittorio distolse lo sguardo, incapace di sostenere gli occhi chiari del figlio che vedevano troppo. Sentiva il peso delle parole di Eloisa riecheggiare nelle domande di Giulio. La sua famiglia stava percependo il muro che stava alzando, mattoni invisibili costruiti con il suo segreto. Prese un respiro tremante. "È il progetto, Giulio," ripeté, la voce che suonava più stanca di quanto volesse. "È solo un po'... complicato. Ci sono dei dati che non capisco bene. Richiedono molta attenzione." Tentò un debole sorriso. "Niente che un fisico non possa risolvere, non preoccuparti."
Giulio non sembrò convinto. I suoi occhi chiari non si spostarono da quelli del padre. "Sì, ma... non è solo stanchezza o lavoro," disse con un'ostinazione pacata. "Ti vedo... spaventato, papà."
Quella parola. "Spaventato". Era come una lama sottile conficcata nel suo petto. Era la verità, nuda e cruda, vista dagli occhi innocenti ma attenti di suo figlio. Vittorio sentì un brivido correr lungo la schiena, non per il freddo dell'aria condizionata dello studio, ma per la profondità di quella semplice osservazione. La sua mano si fermò a mezz'aria, bloccata tra la negazione e la voglia disperata di urlare la verità. Non riuscì a rispondere subito. La sua espressione, per un fugace istante, lasciò trapelare l'abisso di ansia che nascondeva.
Un silenzio pesante calò nello studio, rotto solo dal leggero ronzio dei sensori e dalla luce tremolante sugli schermi. Giulio osservava il padre, attendendo una risposta che non arrivava, sentendo il muro farsi ancora più spesso e impenetrabile. Vittorio, prigioniero del suo segreto e dello sguardo del figlio, non sapeva cosa dire, intrappolato tra l'amore per la sua famiglia e il terrore di ciò che aveva risvegliato sotto il respiro eterno della Cupola.
(Continua nei prossimi post)